Il Natale Serafini Antichità tra idee regalo, arredo, design ed il buongusto unico

Natale –  Lo show room, l’expo all’Area di Servizi Civita Sud vi aspettano per presentare le nuove collezioni idee regalo per le festività 2019-2020. Pezzi unici per sorprendere e per essere apprezzati. Una amplissima scelta di articoli design particolari che fanno la differenza. Unitamente a ciò l’offerta si estende alla produzione diretta di Serafini Group: l’acetaia Serafini che da tradizione modenese autentica produce aceti balsamici D.O.P. con diverse tipologie di invecchiamento e con un sapore sopraffino ed unico con l’invecchiato 25 anni. Prodotto ideale per arricchire la tavola, sorprendere ospiti e palato. E poi il parmiggiano reggiano sempre di produzione Serafini che viene presentato in packaging Natalizio con stagionature di 24 e 30 mesi per un gusto sorprendente. E dunque val bene l’occasione di una visita: oltre 6000 metri quadrati via Colle San Giovanni a Civita di Oricola e/o presso l’Area di Servizio Civita Sud A24 nei pressi di Carsoli – Oricola.

Arriva il Real Black Friday Serafini Antichità

Arriva il Real Black Friday Sale con una promozione esclusiva che ammonta al 50% reale.

Collezioni esclusive diventano una realtà da acquistare e l’appuntamento è per Venerdì 29 novembre 2019 presso lo

Show Room di Civita di Oricola in via Colle San Giovanni. Un expo unica nel suo genere con oltre 6 mila metri quadrati

a disposizione tutti da visitare…

L’arte incontra Serafini Antichità, apprezzato il vernissage di Luciano Cestra

Civita di Oricola – Si è svolta oggi sabato 16 novembre un interessante vernissage allestito dal pittore Luciano Cestra presso l’Expo room di Serafini Antichità. E’ stata una occasione per legare l’arte espressiva pittorica con gli arredi di antichità. “Un connubio perfetto – ha commentato Davide Serafini – per una giornata dedicata alla capacità espressiva. Abbiamo voluto abbinare i dipinti ai vari complementi e pezzi d’arredo per un percorso unico nel suo genere e che ha fatto riscontrare l’apprezzamento della gradita clientela che ha espresso i complimenti all’autore delle opere”.

 

Espressioni d’arte allo show room di Serafini Antichità con l’artista Luciano Cestra

Civita di Oricola – Lo show room di Serafini Antichità propone il vernissage del pittore Luciano Cestra. Espressioni d’incanto che esaltano l’anima. Da sempre la pittura ben si coniuga con l’antiquariato ed il design, l’appuntamento quindi è per Sabato 16 novembre 2019 dalle ore 9.30 alle 16.00 con un vernissage del noto artista contemporaneo.

Expo Area Serafini Antichità, via Colle san Giovanni, Civita di Oricola

L’origine e la storia del Chesterfield, nuove promozioni speciali allo show room

Serafini Antichità pone molta attenzione alla selezione delle proprie expo, in particolare cura iI Chesterfield che sono  sono poltrone, divani e pouf inglesi realizzati in pelle, con lavorazione capitonnè, secondo un modello originario risalente a un periodo compreso tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. ma lievemente mutato con il passare dei decenni, a livello di design. Secondo l’Oxford English Dictionary, il sostantivo chesterfield era già utilizzato in Inghilterra nel 1800 per definire un divano in pelle. E, sempre a partire dall’Ottocento, esso divenne sinonimo di divano, specie nel continente americano. Il nome deriva molto probabilmente dall’omonima città britannica cui si riferisce il titolo nobiliare di Lord Phillip Stanhope, quarto Conte di Chesterfield (1694-1773), che avrebbe commissionato a un artigiano londinese il primo divano o la prima poltrona di questo tipo, dotati di una morbida imbottitura del cuscino e di una seduta molto bassa.
Il nome Chesterfield non si riferirebbe pertanto al luogo di produzione originario del mobile, ma alla denominazione del feudo del conte, che però risiedeva a Londra, città in cui la poltrona sarebbe stata ideata. La pelle utilizzata era ed è quella bovina, di primissima scelta e lavorata con particolare cura e attenzione affinché sia molto liscia e gradevole al tatto e molto resistente.

Il perfetto tensionamento della stessa è garantito dalla presenza di grossi bottoni. Divani, poltrone e pouf con lavorazione della pelle secondo la tecnica capitonné – il termine equivalente, in italiano, sarebbe “trapunta” o “trapuntata” – costituiscono un’icona delle élite europee dell’Ottocento. Con il nome Chesterfield è nota anche marca di sigarette prodotte dalla multinazionale Philip Morris, oggi Altria Group Inc. Una curiosita linguistica. Gli italiani preferiscono chiamare divano il mobile dotato di più sedute. Nell’Ottocento e nel primo Novecento era diffuso, da noi, anche il nome ottomana, che si riferiva ai grandi spazi di seduta con cuscini presenti nei palazzi medio-orientali – ottomani, quindi turchi –  e negli harem. Gli inglesi hanno la preferenza per il termine sofà o, in una terminologia più casalinga, couch. Anche se nel dizionario inglese appare, il sostantivo divan viene utilizzato raramente. Anche per i francesi esso è un sofà – il termine più utilizzato, presente prima nel lessico francese e adottato dagli inglesi – o un canapé. Sofà deriva da suffa, che in arabo significa cuscino. Ciò significa che il modello originario a cui l’Europa si ispirò per realizzare divani furono le sedute con tanti cuscini e materassi della tradizione araba. Divano deriva invece dal turco divan – consiglio di stato – e dal persiano dīwān, che significava sia ufficio che sedile. Canapé è un sostantivo francese entrato nel dizionario transalpino dal Seicento e deriverebbe dal latino volgare canapeum, corruzione del termine classico conopeum, a sua volta derivante dal greco kōnōpeîon ‘zanzariera’. Ma è probabile che nel  XVII secolo, sviluppando il concetto antico di letto con zanzariera,  ci si riferisse contemporaneamente alla stoffa di canapa.

Presso il nostro show room potrete trovare delle occasioni uniche con scontistica particolare sui pezzi disponibili in magazzino pronta consegna!

Serafini Antichità alla quarantacinquesima edizione di MOACASA

Roma – Anche quest’anno Serafini Antichità partecipa alla quarantacinquesima edizione di MOACASA, un evento suggestivo dove il fascino del mobile antico e le collezioni recenti saranno esposte in grande stile. L’appuntamento è al padiglione 3 presso la Fiera di Roma dal 26 ottobre al 3 novembre 2019.  La denominazione ‘MOA’. La missione aziendale della Cooperativa è la promozione delle attività commerciali attraverso mostre, convegni e l’istituzione di osservatori privilegiati per il controllo della qualità, del prezzo e la selezione degli operatori. Dal 1975, anno di costituzione della Cooperativa, le iniziative sono state orientate non solo all’arredo in termini commerciali ma anche al design e, negli ultimi anni, alla ristrutturazione di interni ed esterni. Da circa oltre 40 anni MOA Società Cooperativa racchiude tra i suoi espositori le migliori aziende italiane, il cui pregio viene valorizzato da un format espositivo progettato con lo specifico intento di far dialogare con intelligenza industria e artigianato di alto livello, classico e design, promuovendo i marchi più significativi del Made in Italy. Una ricetta vincente che conta per ognuno dei due appuntamenti fieristici, MoaCasa e Casaidea, oltre 100.000 visitatori l’anno. “Nelle nostre manifestazioni trovano spazio diverse forme d’arredo, dalla tradizione ai giovani designer, ma sempre all’insegna dell’innovazione e dei servizi a valore aggiunto proposti al pubblico. La missione di MOA Società Cooperativa è di favorire la tradizione italiana con manufatti artigianali di qualità prodotti dalle nostre aziende, grazie al supporto di operatori qualificati e di anticipare le novità del settore, presentando in anteprima ai visitatori i trend di design e di mercato”.

 

Vittorio Sgarbi dall’Area di Servizio A24 Civita Sud parla dell’infedeltà femminile dall’antichità ad oggi

 Civita di Oricola – Una visita a sorpresa che non è certo passata inosservata sulla A24 e precisamente presso l’Area di Servizio Civita Sud di Serafini Group.

Il popolarissimo critico d’arte Vittorio Sgarbi, in una sosta durante il viaggio ha apprezzato particolarmente l’area di Servizio e la sua expo di oggettistica e mobili antichi, ed ha deciso quindi di indossare un elmetto d’epoca originale per videopromuovere un evento di grande interesse sul tema “Così fan tutte. L’infedeltà femminile dall’antichità ad oggi”. Sgarbi in un video ha annunciato l’inaugurazione di una mostra che s’inaugura il 23 settembre a Milano in via Dante 14, promossa da “Gleeden”, e sulla quale lo stesso Sgarbi terrà una lectio magistralis il 24 settembre.  Sgarbi si è intrattenuto in un gradevole colloquio con l’imprenditore Giancarlo Serafini founder dell’omonimo gruppo che si occupa di Antiquariato, produzione di aceti balsamici tradizionali Dop, immobiliare ed altre attività.

Per vedere il video pubblicato sulla pagina facebook ufficiale di Vittorio Sgarbi clicca qui

Serafini Antichità nel mondo del cinema: al via il noleggio allestimenti scenografici

Serafini Antichita’ entra ufficialmente nel mondo delle forniture a noleggio a breve e lungo termine di una delle case cinematografiche piu’ importanti d’Italia. Un percorso entusiasmante previsto da specifici format mirati con l’utilizzo della molteplicità di collezione, pezzi unici che potranno essere protagonisti insieme agli attori di bellissime pellicole della migliore cinematografia nazionale ed estera.

 

 

 

 

La storia del re bambino Corradino di Svevia ed il processo a Carlo D’Angiò per la battaglia dei Piani Palentini

Serafini Antichità ha curato le scenografie per una rappresentazione teatrale in grande stile. E’ stata rievocata la Battaglia dei Piani Palentini, con lo spettacolo teatrale “Processo a Carlo D’Angiò”, andato in scena a Carsoli  presso piazza Corradino, riportiamo uno stralcio storico relativo al giovane re, alla sua storia e alla Battaglia su cui è ispirata l’azione processuale. Sul palco sotto la regia dell’Avv. Giovanni Alberto Marcangeli dunque è stata  rievocata in una aula giudiziaria, tutto il processo al Re. Presidente del Tribunale è statoBrizio Montinaro già presidente del Tribunale di Avezzano e capo della Procura di

La storia:

Il 29 ottobre del 1268 il sole splende su Campo del Moricino a Napoli. L’ultimo principe della casa di Svevia lascia Castel dell’Ovo e sale sul patibolo.

Sconfitto a Tagliacozzo e catturato con l’inganno, è stato condannato a morte da Carlo d’Angiò.

Prima di essere decapitato si rivolge ai presenti e lancia un guanto alla folla: «Qualcuno raccoglierà la mia sfida». Una mano furtiva raccoglie quel guanto e cova vendetta. Quattordici anni dopo quell’uomo, Giovanni da Procida, già medico di Federico II, si presenta a Pietro d’Aragona e ne invoca l’intervento a favore dei ribelli dei Vespri siciliani.

La discesa in Italia Corradino ha sedici anni quando reclama l’eredità del nonno Federico II e dello zio Manfredi. È cresciuto in Baviera, educato dalla madre Elisabetta di Baviera, tra poeti, racconti epici e spettacoli gentili. Poco conosce della politica e della scena italiana, degli scontri tra guelfi e ghibellini, tra papato e impero. In Italia lo accolgono tutti festosamente, ma quando si tratta di combattere contro Carlo d’Angiò in pochi lo seguono. Anzi, lo tradiscono e lo vendono al rivale.

La calorosa accoglienza ricevuta nella ghibellina Pisa e nelle città imperiali dell’Italia settentrionale incoraggiano Corradino a continuare la marcia verso il Sud e verso l’eredità che legittimamente gli spetta. La rivolta dei guerrieri saraceni di Lucera, ancora fedeli al Falco di Svevia, gli suggerisce la strategia da seguire: puntare sulla città pugliese per liberare la guarnigione dall’assedio e così facendo costringere Carlo alla battaglia. Le cose andranno in maniera molto diversa. Sceso in Italia per riconquistare il regno di Napoli, passato in mani francesi dopo la battaglia di Benevento il 26 febbraio del 1266, Corradino si scontra con le truppe di Carlo d’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo, o Scurcola Marsicana, combattuta presso i Piani Palentini il 23 agosto del 1268, e perde tutto.

Corradino scende in Italia passando per il Brennero e il 21 ottobre del 1267 è a Verona. E subito si presentano le prime divisioni. I suoi vassalli tedeschi, tra cui il duca Ludovico, il conte Mainardo e Rodolfo d’Asburgo, consci della situazione italiana, lo consigliano di riprendere la via della Germania, troppo complicato battere l’Angiò e tenere buono il Papa. I nobili italiani, in special modo gli esuli meridionali, lo incitano a proseguire, a puntare a sud, forti anche delle vittorie sul mare e in Sicilia di Corrado Capece. Le notizie provenienti da Lucera e della ribellione dei saraceni fedeli a Federico II, inoltre, convincono Carradino a ripartire alla volta di Pisa con tremila cavalieri, dove entra il 7 aprile del 1268. Nel frattempo papa Clemente IV ha rinnovato la scomunica, privando Corradino del titolo di re di Gerusalemme, predicando la crociata contro il giovane e lanciando l’interdetto alle città che lo avrebbero aiutato. A Roma viene accolto favorevolmente da una piccola parte della nobiltà, con i Frangipane, i Colonna e i Conti che si mantengono neutrali. A questo punto non rimane che lo scontro aperto tra i due rivali.

Corradino e i suoi consiglieri scelgono di non entrare nel Regno attraverso la Via Appia, anche in virtù delle forti posizioni del nemico sulle linee del Liri e del Volturno, ma passando per l’Abruzzo, lungo la Via Valeria avanzando direttamente verso Lucera, dove i saraceni erano insorti dal febbraio. Con cinquemila cavalieri, quindi, lascia Roma e si dirige a sud. La fanteria lo abbandona alle prime difficoltà montuose del percorso, nei pressi di Arsoli. Poco importa, anche re Carlo non ha fanteria.

Tra i due contendenti inizia una partita a scacchi per scegliere il luogo dello scontro. Corradino lascia la Via Valeria e si dirige a nord-est, verso L’Aquila, per evitare la trappola del doppio attraversamento del Salto e di dare battaglia prima del congiungimento con i suoi partigiani di Puglia. Carlo si sposta con i suoi cavalieri sull’altopiano di Ovindoli per intercettare l’avversario. Giunti nella Valle del Salto, gli imperiali si dirigono a Campo Palentino, dove arrivano la sera del 22 agosto. Carlo attraversa la Via Valeria e si attesta ad Albe. In mezzo ai due eserciti scorre un torrente, il Riale, oggi quasi completamente scomparso, che confluisce nel Salto poco più a valle.

Prima della battaglia «Nel 1268 Carlo d’Angiò, riferendo a papa Clemente IV sulla vittoria di Tagliacozzo, accenna prima al suo spostamento “con le schiere formate” e poi a “schiere distinte e ordinate a battaglia” in vista del nemico il quale, a sua volta, lo attende nella pianura antistante “senza tuttavia avere in nessun modo sciolto le sue schiere”». Carlo d’Angiò, però, nella lettera inviata la sera stessa al Papa, per annunciargli la vittoria, non fa cenno al disonorevole trucco utilizzato per ingannare e battere Corradino. Perché sa che la tattica consigliata da Alardo di Valéry e adottata in battaglia viola la consuetudine cavalleresca. Non vi fu onore, d’altronde, nel comportamento del re francese sia nella vendetta contro chiunque avesse aiutato Corradino né nel destino riservato al giovane svevo, nonostante le suppliche di Elisabetta di Baviera, accorsa a Napoli per salvare il figlio.

L’esercito di Corradino era composto da cinquemila cavalieri, superiore a quello del nemico, diviso in tre formazioni schierate lungo il ruscello. Nella prima schiera militavano cavalieri tedeschi, ghibellini toscani ed esuli o rifugiati del Regno, sotto il comando di Kroff di Flünglichen, Corrado di Antiochia e Galvano Lancia. Enrico di Castiglia comandava la seconda schiera di cavalieri spagnoli e ghibellini romani. Corradino e la sua guardia personale, con Federico d’Austria e il marchese Pelavicino erano nella formazione di ghibellini lombardi.

Carlo d’Angiò poteva contare su appena quattromila cavalieri, divisi in tre tronconi: provenzali e guelfi italiani sotto il comando del maresciallo di Francia Henri de Courence; mercenari francesi agli ordini di Jean de Clary e del siniscalco di Provenza Guillaume l’Estendart; la guardia personale del re e i suoi cavalieri più fidati e valorosi. Tra i cavalieri Angioini figurava Alardo di Valéry, il quale aveva passato gli ultimi venti anni della sua vita in Terrasanta, dove aveva appreso un modo diverso di fare la guerra. Non più le violente cariche di cavalleria in campo aperto, ma l’azione di piccoli drappelli di cavalieri, spesso in numero inferiore rispetto al nemico, attraverso agguati e colpi di mano. Così Alardo, vista l’inferiorità numerica dei francesi, consiglia Carlo d’Angiò di nascondere un migliaio di cavalieri dietro un boschetto ai piedi di un colle, sulla destra dello schieramento avversario (“E là da Tagliacozzo/ove senz’armi vinse il vecchio Alardo”, canto XXVIII dell’Inferno). Il piano prevede di attirare gli imperiali in campo aperto, fingere un ripiegamento verso le colline e poi colpirli alle spalle. I francesi hanno preparato un altro inganno per Corradino: il cavaliere Henri de Courence si posiziona al centro della pianura, con la seconda schiera, portando le insegne reali con i gigli della casa di Francia, per attirare e confondere la carica avversaria. I consiglieri di Corradino indicano il centro francese: «Sire, Carlo si è circondato dei suoi cavalieri più fidati, lì al centro, ma lo possiamo travolgere con una carica».

La battaglia Il sole si è alzato da poco quella mattina quando i due eserciti si dispongono a specchio, divisi solo da un rivolo d’acqua. Gli Angioini attendono che gli Svevi attraversino il Riale per dar corso al loro piano, mettendo il ruscello alle spalle dei nemici e tagliando loro l’eventuale fuga. I Tedeschi stanno fermi, facendo lo stesso calcolo: preferiscono che a farsi avanti siano i Francesi, chiudendosi da soli la via di fuga.

Lo stallo viene deciso dalla presenza di un piccolo ponte di legno nei pressi di Castrum Pontis, l’unico punto in grado di garantire la fuga o l’inseguimento: gli Angioini decidono di prenderne possesso, gli Svevi fanno un finto tentativo di riprendere il ponte. E mentre sul passaggio si combatte, Enrico di Castiglia (cugino di Carlo d’Angiò, ma suo fiero avversario), seguendo un sentiero protetto dall’intricata vegetazione cresciuta sulle rive del Riale, «guadò arditamente il fiume alla testa de’ suoi valorosi soldati ed attaccò i Provenzali che furono ben tosto rotti, come pure poco dopo il corpo de’ Francesi». Gli Angioini sbandano, Henri de Courence si lancia nella mischia con le insegne regali. La schiera tedesca che combatte sul ponte aumenta la pressione e riesce ad avere la meglio dei francesi che scappano. Henri di Courance viene disarcionato e ucciso, le insegne di Francia sono a terra. Gli Svevi credono di aver vinto. Enrico di Castiglia si lancia all’inseguimento dei fuggiaschi, le truppe sveve si sparpagliano per la pianura in cerca di bottino. Corradino osserva tutto e ascolta i messaggeri che gli annunciano: «Re Carlo è morto, abbattuto insieme con le sue insegne».

«I Ghibellini erano talmente superiori di numero, che l’armata nemica si vide in breve distrutta o posta in disordinata fuga. Carlo che dall’alto di un colle vedeva l’uccisione delle sue genti, si disperava, e voleva ad ogni modo andare in loro soccorso, ma il signore di San Valerì, che perfettamente conoscendo la natura de’ Tedeschi aveva calcolati gli effetti della loro vittoria, non gli permise di muoversi». Lo scontro, però, non è finito.

La battaglia di Tagliacozzo fu un unicum rispetto alla tipologia degli scontri medievali. Fu una carneficina, senza rispetto delle regole cavalleresche, con prigionieri giustiziati sul posto e cavalieri massacrati anche quando si arrendevano. Fu una gigantesca imboscata, frutto del genio di Alardo di Valery, ma anche esempio di errato comando da parte di Corradino e dei suoi comandanti che non seppero tenere a freno la voglia di bottino dei loro uomini.

«La tendenza a spogliare subito i corpi degli uccisi, che era, come si è visto, duramente repressa dalle leggi bizantine perché distoglieva gli uomini dal combattimento, fu non di rado motivo di gravi sconfitte: basterà citare il famoso caso di Tagliacozzo dove nel 1268 Carlo d’Angiò battè Corradino di Svevia. Dopo il primo scontro – racconta Giovanni Villani – i Tedeschi si credettero di aver vinto e si cominciarono a spandere per lo campo, e intendere a la preda e alle spoglie, soccombendo così facilmente alla terza schiera che re Carlo aveva tenuto di riserva secondo i consigli di Alardo di Valery, maestro dell’oste e savio di guerra, il quale conosceva la cupidigia de’ Tedeschi e come erano vaghi delle prede»

Solo quando «Alardo di San Valerì vide compiutamente rotti gli ordini di battaglia delle truppe di Corradino, e che dispersi nell’inseguire i fuggiaschi, erano divisi in piccole bande, e non più in istato di sostenere l’urto della sua cavaleria, voltosi a Carlo, gli disse: “Fate adesso suonare la carica, che giunto è l’istante opportuno”».

Era arrivato il momento, per Carlo e le sue truppe nascoste, di attaccare. Fu così che «le truppe di Corradino, disordinate, esauste dallo strapazzo della mischia sostenuta e dall’inseguimento dei nemici fuggiaschi, avide di bottino ed intente al saccheggio, furono da quella piccola schiera di nemici atterrate, calpestate, disperse».

Carlo d’Angiò esce dal suo nascondiglio e coglie di sorpresa gli Svevi e con «freschi cavalieri» attacca i nemici «oppressi dalla fatica, e talmente dispersi, che in verun luogo trovavansi duecento cavalieri riuniti e disposti a fare resistenza, ne fecero uno spaventoso massacro». I cavalieri tedeschi, toscani e lombardi si accorgono del doppio inganno quando è troppo tardi. Impossibile riorganizzare le file e contrattaccare. Impossibile reggere l’urto di mille cavalieri lanciati contro nemici appiedati e intenti a spogliare cadaveri.

Neppure il ritorno di Enrico di Castiglia dall’inseguimento può fare nulla. Il cavaliere spagnolo riorganizza i suoi, tiene duro, cerca di riguadagnare la riva opposta del Riale, ma alla fine deve soccombere. «I Francesi, vedendo rialzata l’insegna del loro re, accorrevano ad ordinarsi intorno alla medesima, e per tal modo la gente di Carlo andava ingrossando, mentre scemava quella di Corradino».

Corradino assiste alla disfatta dalla terza linea, senza entrare mai in battaglia. Assiste impotente alla fine di una sanguinosa giornata che costa almeno quattromila morti e quasi altrettanti feriti. L’esercito di Corradino non esiste più, mentre quello di Carlo non è in grado di sostenere un’altra battaglia.

La fuga e l’esecuzione Il principe svevo cerca la salvezza a Roma, ma il clima politico è cambiato,adesso sono tutti angioini. Con Federico di Baden e pochi altri tedeschi e italiani fedeli raggiunge Astura, sulla costa a sud di Anzio, per salpare verso la Sicilia o Pisa, «ma Giovanni Frangipani, signorotto di Astura, fece inseguire i fuggiaschi con un rapido veliero, che li costrinse a tornare alla riva, ove furono rinchiusi nel castello. Con la promessa di denaro e di terre, il Frangipani consegnò i prigionieri agli emissari di Carlo d’Angiò». La prigione in Castel dell’Ovo e il patibolo lo attendevano. Corradino pagava per la giovane età, l’inesperienza, i cattivi consiglieri e «perché tutte le sue genti, sicure di aver già vinto, cominciarono a spogliare il campo e a bottinare, dando modo a re Carlo di irrompere con la sua schiera sui predatori e metterli in rotta».

Le suppliche e le preghiere della madre, Elisabetta di Baviera, non salvarono la vita al giovane, accusato di tradimento e lesa maestà. «Corradino trovavasi già tra le mani del carnefice; si staccò egli medesimo il mantello, e postosi in ginocchi per pregare, si rialzò gridando: “Oh mia madre, di quale profondo dolore ti sarà cagione la notizia che ti sarà portata della mia morte!”». Elisabetta di Baviera risponderà a questa preghiera tramite il poeta risorgimentale Aleardo Aleardi: «Nobile augello che volando vai, se vieni da la dolce itala terra, dimmi, hai veduto il figlio mio?”. “Lo vidi; era biondo, era bianco, era beato, sotto l’arco d’un tempio era sepolto”.

Ad Elisabetta riuscì solo di far traslare il corpo dell’ultimo sovrano svevo, dieci anni dopo la morte, nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Napoli dove «una statua di lui ed una pietosa iscrizione nella Chiesa del Carmine parlano del cordoglio di essa e le ricche dotazioni che lasciò a quei frati per suffragio dei suoi diletti». Una statua del giovane sovrano, voluta da Massimiliano di Wittelsbach, ideata da Bertel Thorvaldsen ed eseguita da Peter Schoepf nel 1847, decora il sepolcro di Corradino.